L’Aquila, per la ricostruzione serve un Noi “allargato”

Rintocchi, commemorazioni e manifestazioni nel giorno in cui si ricordano le 309 vittime del sisma del 2009. Di grande rilievo la lettera dell’arcivescovo mons. Petrocchi, resa nota qualche ora fa
L'Aquila

Alle 3,32 della notte trascorsa, a cinque anni dal terremoto che il 6 aprile devastò L’Aquila e 56 comuni limitrofi, la campana della chiesa di Santa Maria del Suffragio, in pieno centro storico, ha iniziato a diffondere il primo dei 309 rintocchi a ricordo delle altrettante vittime del sisma. Momenti intensi e commoventi, non solo commemorativi ma pure esistenziali per i nomi pronunciati dei morti, tenuti vivi e presenti nella memoria personale e collettiva.

Il suono della campana è stato preceduto dalla messa celebrata dall’arcivescovo Giuseppe Petrocchi, giunto nella diocesi abruzzese solo nel luglio scorso, ma inseritosi con rapidità nel complesso contesto aquilano del grave dopo-terremoto. Una sua lettera agli aquilani (o qualcosa di simile) era stata annunciata da qualche giorno e questa mattina, in concomitanza con il doloroso anniversario, è stata resa pubblica.

Il testo colpisce soprattutto per il coraggio di certe affermazioni forti e nette, messe giù per risvegliare le coscienze, per aiutare cittadini, gruppi, professionisti, amministratori a recuperare il senso del bene comune «Perché vinca la vita», come mons. Petrocchi ha intitolato il suo testo.

«Occorre esorcizzare – afferma senza mezzi termini – il magnetismo malefico degli individualismi sfrenati e predatori; smontare gli egoismi di casta e i monopoli dei gruppi élitari; neutralizzare le miopie ideologiche e le sterili polemiche; sminare i campi del dibattito politico dai pregiudizi, dalle faide e dagli agguati; sanare le divisioni che, infettandosi, diventano piaghe sociali». Questo è il problematico contesto politico-sociale.

Costata che «non mancano motivi di denuncia, di protesta, di delusione e di sofferenza, che vanno però gestiti con maturità etica e democratica», indica che «bisogna percorrere le vie del dialogo a tutto campo», «immunizzarsi dalle tossine di una “cultura dell’urlo e del randello”», che va «evitata e combattuta ogni cancrena della disinformazione e della diffamazione».

Il neo-cittadino è arrivato ad una conclusione: «Ho l’impressione che occorra incrementare una “consapevolezza corale” e sempre più lucida degli eventi accaduti. Oggi, più che di “dopo-terremoto”, parlerei di “terremoti-dopo”» e indica che il sisma ha prolungato la sua nefasta azione sino ad oggi. Insomma, la contabilità delle vittime non può fermarsi alle 309 ufficiali.

Ricorda le tante persone decedute per infarto, tumore o malattie riconducibili a drastiche diminuzioni delle difese immunitarie, causate da forte stress. Fa presente i diffusi fenomeni depressivi e di rassegnata tristezza, e il conseguente accentuato ricorso agli psicofarmaci. Racconta del “trasloco forzato” di migliaia di persone ancora residenti fuori delle loro case, con la perdita di legami affettivi e spazi di aggregazione sociale.

Rammenta il robusto esodo silenzioso di tanti aquilani verso il litorale abruzzese, tra cui tanti giovani, per cui indica «un’allarmante emorragia generazionale». Gli effetti sono evidenti: incapacità ad avviare iniziative economiche, spinte disgregative che colpiscono numerosi nuclei famigliari, disagio giovanile, disorientamento esistenziale.

Sin qui, l’accurata analisi. Che spinge il presule a forti prese di posizione. «Non basta dire “L’Aquila non morirà”, e neppure limitarsi ad affermare che rivivrà “così com’era”. Bisogna mirare ad un progetto molto più grande, annunciando che L’Aquila “risorgerà”, più forte e più bella di prima. Ma per ridare a L’Aquila il suo volto splendido e accogliente si richiede la costruzione di un “Noi allargato”, che pensa al plurale e si protende, con tenacia, verso il bene comune».

E ancora: «La ricostruzione, per essere vera ed efficace, non può contare solo su logiche ingegneristiche ed efficienze tecnico-finanziarie: ha bisogno di ritrovare un’anima, munita di intelligenza “profetica” (che sa ideare l’avvenire valorizzando l’esperienza del passato) e dotata di cuore che pulsa amore, spirituale e civile (idoneo a creare coesione sociale e cittadinanza attiva)».

Tiene così a precisare che «La ricostruzione di L’Aquila deve garantire la rapida e fattiva riedificazione delle abitazioni civili, per consentire alla popolazione di ritornare presto a casa, ma anche – e in modo sincronico – deve puntare al restauro delle chiese, che costituiscono un fondamentale fattore “identitario” dell’“aquilanità, che consente alla Città di rimanere se stessa e diventare – di più e sempre meglio – un polo turistico importante nel panorama regionale e nazionale».

Avverte infatti mons. Petrocchi che occorre  «impedire che la perdurante “apnea aggregativa”, da cui siamo afflitti, finisca per provocare “asfissie comunitarie”, con pesanti ricadute non solo sul piano ecclesiale, ma anche nell’ambito civile e culturale». Sua convinzione è perciò che le migliori energie non ancora espresse vadano fatte operare in «concorde sinergia», per «riaprire le strade maestre che conducono ad un futuro sereno, solidale e promettente per tutti e per ciascuno».

Per giungere a questo, reputa indispensabili due prerogative: potenziare lo slancio della fede e usare la forza della sana ragione civica. Solo così L’Aquila sarà «capace di resistere agli impulsi torrentizi dell’emotività; lungimirante nel tessere intese; abile nel disinnescare contrapposizioni e rivalità; onesta nel riconoscere i risultati positivi conseguiti dagli altri; intransigente nel respingere ogni forma di illegalità; costante nell’applicazione delle regole che devono governare le interazioni tra istituzioni e cittadini; creativa nello sviluppare una prospera e innovativa produttività economica».

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